Il nuovo regime degli impatriati recato dall’art. 5 del DLgs. 209/2023 mantiene, pur se entro alcuni limiti, la possibilità di beneficiare dell’agevolazione se l’attività lavorativa svolta al rientro, anche in smart working, in Italia è in continuità con quella prestata all’estero.
In particolare, se il lavoratore presta l’attività lavorativa in Italia in favore dello stesso soggetto presso il quale è stato impiegato all’estero prima del trasferimento, oppure in favore di un soggetto appartenente al suo stesso gruppo, il requisito minimo di permanenza all’estero (ordinariamente disposto in tre periodi di imposta) è innalzato a:
– sei periodi d’imposta, se il lavoratore non è stato in precedenza impiegato in Italia in favore dello stesso soggetto oppure di un soggetto appartenente al suo stesso gruppo;
– sette periodi d’imposta, se il lavoratore, prima del suo trasferimento all’estero, è stato impiegato in Italia in favore dello stesso soggetto oppure di un soggetto appartenente al suo stesso gruppo.
In aggiunta, come nelle precedenti formulazioni, l’attività lavorativa deve essere prestata per la maggior parte del periodo d’imposta in Italia.
Sono stati, quindi, superati i problemi legati alla formulazione dello schema di DLgs. approvato in via preliminare (Atto Governo n. 90), la quale richiedeva che l’attività lavorativa fosse svolta in Italia in virtù di un nuovo rapporto di lavoro con un soggetto diverso da quello presso il quale il lavoratore era impiegato all’estero.
Nel nuovo contesto normativo è possibile individuare alcune situazioni distinte, per quanto concerne la prestazione lavorativa da remoto.
Se il lavoratore si trasferisce in Italia per lavorare, da remoto, in favore di un datore di lavoro diverso da quello per cui prestava attività lavorativa all’estero e non appartenente al medesimo gruppo del datore estero, il beneficio spetta se la persona è stata residente all’estero per almeno tre periodi di imposta. Tale situazione è parificata a quella della prestazione in presenza presso il nuovo datore di lavoro, fermo restando che, anche in presenza, il periodo di permanenza triennale è subordinato alla condizione di novità rispetto ai precedenti rapporti di lavoro.
Lo stesso principio dovrebbe valere, a una prima analisi, se il datore di lavoro italiano “di partenza” e “di arrivo” coincidono (ad esempio, se la persona lavorava in Italia alle dipendenze dell’impresa A, si trasferisce all’estero per quattro anni alle dipendenze dell’impresa B – indipendente da A – e torna in Italia per lavorare per A), sempreché non vi siano pregressi accordi per il rientro.
Invece, nel caso in cui un cittadino estero, mai impiegato in Italia, si trasferisca in Italia continuando a svolgere attività lavorativa in smart working alle dipendenze del medesimo datore di lavoro estero, l’accesso all’agevolazione è condizionato alla permanenza estera pregressa per sei periodi di imposta.
Sempre nella situazione di smart working alle dipendenze del medesimo datore estero, il periodo di osservazione aumenta a sette periodi se, diversamente dal primo caso, si tratta di una persona che abbia già lavorato in precedenza in Italia e tale attività sia stata effettuata in favore di un soggetto appartenente allo stesso gruppo del datore di lavoro estero.
Nessuna regola ad hoc per i lavoratori autonomi
Non si comprende invece quale sia il trattamento da riservare, nelle sopradescritte situazioni, ai lavoratori autonomi, posto che la norma sembra riferirsi ai soli lavoratori “impiegati” presso un datore di lavoro, e quindi ai soli lavoratori dipendenti.
Un’interpretazione letterale porterebbe ad ammetterebbe al beneficio i lavoratori autonomi che possano dimostrare la sola residenza estera triennale.
Un approccio più prudenziale porterebbe invece a considerare il termine “impiegati” come utilizzato dalla norma in senso atecnico, con il risultato di ricomprendere nelle limitazioni anche i lavoratori autonomi; in tal senso, le situazioni potenzialmente oggetto di “osservazione” sono le ipotesi di mono-committenza (es. autonomo che fattura il 100% delle prestazioni alla società USA C e che, impatriato in Italia, continua a fatturare il 100% delle prestazioni alla società USA C).
Ragionando per paradossi, nessun rischio, per contro, pare sussistere nel caso in cui il professionista emetta, al rientro, una sola fattura nei confronti del medesimo committente estero: c’è sì, infatti, un rapporto con il vecchio committente, ma risulta difficile assimilarlo a un “impiego”.
Si potrebbe, in situazioni intermedie, ragionare in termini di prevalenza, ma è chiaro che si tratta di “scorciatoie” che mettono in evidenza la scarsa coerenza della nuova norma con il mondo del lavoro autonomo, e che potrebbero portare all’esclusione degli esercenti arti e professioni dalle limitazioni in commento.