Illegittimo l’avviso di accertamento con redditometro al contribuente il quale dimostra che le somme contestate non sono maggior reddito ma la restituzione di un prestito. Non spetta al contribuente provare la provenienza lecita delle somme (nel caso di specie restituitegli dalla società di cui era socio ed amministratore) e che queste abbiano scontato l’imposta.
Lo ha stabilito la Cassazione con l’ordinanza 36711 del 15 dicembre 2022, con cui ha rigettato il ricorso dell’Agenzia delle entrate.
Confermata la pronuncia della Ctr che ha ritenuto superata dal contribuente la presunzione dell’amministrazione finanziaria di un maggior reddito derivante dalla restituzione di un prestito. Il contribuente aveva, infatti, acceso un mutuo presso una banca ed utilizzato la somma mutuata per effettuare un finanziamento a favore di una società di cui era socio e amministratore; successivamente la società aveva erogato al contribuente la somma e quest’ultimo, lo stesso giorno, aveva versato la somma ricevuta dalla società alla banca estinguendo il mutuo precedentemente acceso. Questi, dunque, aveva dato dimostrazione che la disponibilità di spesa nasceva dall’erogazione di pari importo effettuata dalla società in restituzione del finanziamento.
Bocciata così la tesi dell’Agenzia delle entrate secondo cui l’onere della prova del contribuente sipotrebbe considerare assolto solo se il privato avesse reso verificabile «che tali somme (erogate dalla società) avessero in effetti scontato l’imposta dovendosi altrimenti presumere che provenissero da fonti illecite, come ad esempio utili extracontabili».
Una volta che l’amministrazione abbia dimostrato, anche mediante un unico elemento certo, la divergenza tra il reddito risultante attraverso la determinazione analitica e quello attribuibile al contribuente, quest’ultimo è onerato della prova che l’imponibile così accertato è costituito, in tutto o in parte, da redditi soggetti a ritenute alla fonte o esenti ovvero da finanziamenti di terzi. Per legge il contribuente deve dare la prova che il finanziamento delle spese contestate è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo d’imposta.
Dunque, nel caso in esame, la tesi dell’Agenzia comporterebbe un aggravamento dell’onere della prova a carico del contribuente, rispetto a quanto previsto dalla legge. L’ufficio, infatti, non nega che dalla cronologia dei fatti possa desumersi che il versamento bancario eseguito dal contribuente – la spesa contestata – ha riguardato le somme date al contribuente dalla società, ossia che il versamento derivi da finanziamenti di un terzo (cfr. Cass. 13602/2018), ma pretende la prova della provenienza lecita di dette somme e della relativa non sottrazione, da parte del terzo (la società), alla dovuta tassazione.