Fondo Piccoli Comuni a vocazione turistica: domande entro il 23/09/2023

Con un avviso del 9 agosto, il Ministero del Turismo informa di una proroga della misura agevolativa riguardante i Comuni a vocazione turistica.

Nel dettaglio, il termine previsto al 9 settembre 2023 per la presentazione delle domande a valere sul Fondo Piccoli Comuni a vocazione turistica sotto i 5000 abitanti, come richiesto da ANCI, è prorogato alle ore 9.00 del 23 settembre 2023.

Con il DM interministeriale n. 7726 del 14/04/2023 recante “Disposizioni applicative per le modalità di attuazione e di funzionamento del fondo istituito dall’articolo 1, comma 607 della legge 29 dicembre 2022, n. 197, destinato a finanziare progetti di valorizzazione dei comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, classificati dall’Istituto nazionale di statistica come comuni a vocazione turistica, al fine di incentivare interventi innovativi di accessibilità, mobilità, rigenerazione urbana e sostenibilità ambientale” il Ministero ha dato attuazione a quanto previsto all’art. 1, c. 607, L.197/2022.

Il Fondo ha come obiettivo la valorizzazione dei comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, classificati dall’ISTAT come comuni a vocazione turistica, così da incentivare interventi innovativi nell’ambito dell’accessibilità, della mobilità, della rigenerazione urbana e della sostenibilità ambientale.

Gli interventi perseguibili sono finalizzati a:
1. accrescere l’accessibilità e la fruizione dell’offerta turistica da parte di persone con disabilità;
2. sostenere la creazione e lo sviluppo di nuovi itinerari e destinazioni turistiche, che valorizzino l’identità territoriale e la vitalità culturale dei piccoli comuni;
3. riqualificare tramite infrastrutture gli ambienti urbani e le aree oggetto di dissesto idrogeologico ai fini della fruizione turistica dell’area;
4. potenziare forme di mobilità sostenibile (es. ricoveri e/o depositi per biciclette; campeggi; turismo en plein air; turismo sulle vie d’acqua, marine, lacuali e fluviali e porti turistici);
5. creare, produrre e diffondere gli spettacoli dal vivo e festival;
6. promuovere e sviluppare il turismo locale del settore primario e delle attività artigianali tradizionali;
7. ridurre l’impatto ambientale del turismo;
8. incrementare la sostenibilità ambientale della destinazione turistica.

Dotazione – Il Fondo avrà una valenza pluriennale sul triennio 2023-2025 e una dotazione complessiva di 34 milioni, di cui 10 milioni di euro per l’anno 2023 e di 12 milioni di euro per ciascuno degli anni 2024 e 2025.

Beneficiari – Le misure sono indirizzate ai Comuni, in forma singola o aggregata, come individuati nell’Allegato 1 dell’Avviso pubblico, rispondenti ai seguenti requisiti:
1. popolazione residente inferiore a 5.000 abitanti come da rilevazione ISTAT;
2. vocazione turistica come individuata dalla categorizzazione ISTAT.

Nel dettaglio possono presentare domanda di finanziamento i Comuni italiani che siano in possesso di entrambi i seguenti requisiti:
a) popolazione residente Istat inferiore a 5.000 abitanti. Il possesso del requisito è riferito all’ultima rilevazione ISTAT disponibile alla data di pubblicazione dell’avviso.
b) appartenenza, alla data di pubblicazione dell’Avviso, del Comune, con riferimento alla “Classificazione ISTAT dei Comuni italiani in base alla densità turistica come indicato dall’articolo 182 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio 2020, n. 77”, in una delle seguenti categorie turistiche prevalenti:
◦ B – Comuni a vocazione culturale, storica, artistica e paesaggistica;
◦ C – Comuni con vocazione marittima;
◦ D – Comuni del turismo lacuale;
◦ E – Comuni con vocazione montana;
◦ F – Comuni del turismo termale;
◦ G – Comuni a vocazione marittima e con vocazione culturale, storica, artistica e paesaggistica;
◦ H – Comuni a vocazione montana e con vocazione culturale, storica, artistica e paesaggistica;
◦ L1 – Comuni a vocazione culturale, storica, artistica e paesaggistica e altre vocazioni;
◦ L2 – Altri comuni turistici con due vocazioni; P – Comuni turistici non appartenenti ad una categoria specifica

L’avviso specifica inoltre che, gli interventi oggetto di agevolazione devono essere finalizzati a:
1. accrescere l’accessibilità e la fruizione dell’offerta turistica da parte di persone con disabilità;
2. sostenere la creazione e lo sviluppo di nuovi itinerari e destinazioni turistiche, che valorizzino l’identità territoriale e la vitalità culturale dei piccoli comuni;
3. riqualificare tramite infrastrutture gli ambienti urbani e le aree oggetto di dissesto idrogeologico ai fini della fruizione turistica dell’area;
4. potenziare forme di mobilità sostenibile (es. ricoveri e/o depositi per biciclette; campeggi; turismo en plein air; turismo sulle vie d’acqua, marine, lacuali e fluviali e porti turistici);
5. creare, produrre e diffondere gli spettacoli dal vivo e festival;
6. promuovere e sviluppare il turismo locale del settore primario e delle attività artigianali tradizionali;
7. ridurre l’impatto ambientale del turismo;
8. incrementare la sostenibilità ambientale della destinazione turistica.

Le domande di partecipazione possono essere presentate dai soggetti in possesso dei requisiti tramite la piattaforma informatica del Ministero appositamente realizzata, a partire dal 17 luglio 2023.

Viene precisato che, eventuali richieste di informazioni/chiarimenti dovranno essere inoltrate all’ indirizzo:
piccoli.comuni@ministeroturismo.gov.it (PEO)
piccoli.comuni@pec.ministeroturismo.gov.it (PEC)

Si specifica trattandosi di una misura pluriennale, possono essere presentate anche istanze a valenza pluriennale per il periodo 2023-2025, in coerenza con la capienza finanziaria prevista per ciascuna annualità.

L’entità del contributo concedibile per ciascun progetto è non superiore alla misura massima del 100% della spesa ammissibile e ad euro 500.000,00 (cinquecentomila/00) per ciascuna annualità, per la progettazione e la realizzazione di ciascun intervento.

Le proposte progettuali non potranno essere inferiori ad un ammontare annuo pari a euro 150.000,00 (euro centocinquantamila/00).

Attenzione al fatto che le attività di compilazione e di presentazione telematica delle domande di finanziamento ( accedi qui per tutto l’occorrente) dovranno essere completate, a pena di esclusione, entro le ore 12:00 del 23 settembre 2023.

Eventuali richieste di informazioni/chiarimenti dovranno essere inoltrate all’ indirizzo: piccoli.comuni@ministeroturismo.gov.it (PEO) – piccoli.comuni@pec.ministeroturismo.gov.it (PEC)

Antiriciclaggio: le nuove disposizioni di Banca d’Italia

Gli orientamenti EBA del 14.6.22 sulle “politiche e le procedure relative alla gestione della conformità e al ruolo e alle responsabilità del responsabile antiriciclaggio” hanno generato un impatto rilevante sull’organizzazione dei presidi AML dei soggetti obbligati e, di conseguenza, sulle procedure e sui controlli interni definiti per il contenimento del relativo rischio.

Sotto il profilo regolamentare, l’Autorità di Vigilanza ha dovuto quindi rimodulare l’originario provvedimento del marzo 2019, ridisegnando innanzitutto presidi organizzativi minimi i quali, pur sotto l’egida del principio di proporzionalità e del risk based approach, devono almeno dotarsi di:

1) una funzione antiriciclaggio;

2) un responsabile per l’invio delle segnalazioni sospette;

3) una funzione di internal audit e

4) un esponente aziendale per l’antiriciclaggio.

Esponente aziendale per l’antiriciclaggio

La previsione di quest’ultima nuova figura ha implicato un aggiornamento dei poteri dell’organo con funzione di supervisione strategica, il quale provvederà, entro il prossimo rinnovo delle cariche sociali o – al più tardi – entro il 30.6.26, alla relativa nomina.

Dal combinato disposto tra il provvedimento in parola, il DM 169/2020 ed il Provvedimento Banca d’Italia del 4.5.21, l’idoneità dell’esponente aziendale incaricato del ruolo di responsabile per l’antiriciclaggio richiederà una valutazione specifica di cui dovrà darsi atto nel relativo verbale della riunione del C.d.A.

Il nuovo protagonista del panorama AML nel quale operano i soggetti obbligati ricopre un incarico di natura esecutiva. Giova rammentare che, in base alle Disposizioni di Vigilanza per le Banche, sono definiti componenti esecutivi: “i) i consiglieri che sono membri del comitato esecutivo, o sono destinatari di deleghe o svolgono, anche di mero fatto, funzioni attinenti alla gestione dell’impresa; ii) i consiglieri che rivestono incarichi direttivi nella banca, cioè hanno l’incarico di sovrintendere ad aree determinate della gestione aziendale, assicurando l’assidua presenza in azienda, acquisendo informazioni dalle relative strutture operative, partecipando a comitati manageriali e riferendo all’organo collegiale sull’attività svolta; iii) i consiglieri che rivestono le cariche sub i) o gli incarichi sub ii) in qualsiasi società del gruppo bancario”.

Alla luce della norma definitoria qui richiamata, letta in relazione alle attribuzioni dell’esponente responsabile per l’antiriciclaggio, sorgono legittimi dubbi sull’opportunità di demandare sostanziali poteri di controllo ad un esponente esecutivo e, soprattutto, si prende atto del sostanziale superamento del limite per cui il presidio antiriciclaggio, in sé considerato, dovrebbe essere del tutto sganciato da logiche gestorie in senso stretto.

Ne sembra conscia, a dire il vero, anche la Vigilanza, la quale si premura di raccomandare, sin dalla stesura della policy antiriciclaggio a cura dell’organo con funzione di supervisione strategica, la gestione in capo all’esponente per l’antiriciclaggio di ipotesi di conflitto di interessi e le relative misure di prevenzione e mitigazione.

Conflitti peraltro nemmeno troppo latenti se si pensa che tale incarico, per espressa previsione del provvedimento in parola, può essere affidato al direttore generale sulle cui prerogative principalmente gestorie non sembra necessario dover indugiare oltre. L’anomalia concettuale qui rilevata si apprezza ancor di più se analizzata con la preclusione prevista per il titolare della funzione antiriciclaggio, il quale non può avere alcuna responsabilità di aree operative.

Per l’introduzione della nuova figura, concepita come punto di contatto tra il responsabile della funzione e l’organo di supervisione strategica, si profilano all’orizzonte, soprattutto per il settore degli intermediari finanziari non bancari minori, riassetti della governance e dei controlli non di poco conto, pur apparendo apprezzabili le vie di uscita, offerte dal provvedimento, sulla cumulabilità di incarichi.

Le stesse vie d’uscita aprono tuttavia ad ipotesi paradossali, generate dalla semplice (e provocatoria) applicabilità del principio di equivalenza: l’esponente responsabile per l’antiriciclaggio può essere identificato nel direttore generale e il provvedimento al riguardo prevede – sia perdonata la ripetizione di termini – che la responsabilità della funzione antiriciclaggio può essere attribuita all’esponente responsabile per l’antiriciclaggio. Ebbene, si potrebbe giungere alla evidentemente non voluta attribuzione della titolarità della funzione antiriciclaggio al direttore generale, ex se, incaricato di compiti gestori in senso stretto.

In buona sostanza, la scelta di qualificare come esecutivo un incarico di controllo, raccordo e trasmissione di flussi informativi risponde ad una ratio che, tuttavia, continua a sfuggire a chi scrive.

Venendo all’inquadramento organizzativo della funzione antiriciclaggio, la novellata edizione del provvedimento in parola vuole che l’attività della stessa, in termini di flussi verso i vertici aziendali (diretti o veicolati dall’esponente responsabile per l’antiriciclaggio), sia oggetto di previsioni, pur non necessariamente prescrittive, già all’interno della policy antiriciclaggio. Quest’ultimo documento continua ad assumere, insieme all’esercizio di autovalutazione del rischio, una sua centralità come matrice di organizzazione e funzionamento del presidio AML, di cui il manuale costituisce promanazione.

Quanto al coinvolgimento “valutativo” nella procedura di escalation, la funzione antiriciclaggio può essere investita di poteri consultivi o “deliberativi” sia pure in chiave antiriciclaggio. Non si comprende tuttavia perché il provvedimento si limiti a considerare le sole fattispecie di avvio o di prosecuzione di un rapporto continuativo, tagliando – di fatto – fuori tutti i soggetti obbligati caratterizzati da operatività istantanea perché legata ad attività finanziarie specifiche, come nel caso dei money transfer.

La titolarità della funzione è attribuita ad una persona fisica idonea a ricoprire l’incarico sulla base di requisiti sostanzialmente analoghi a quelli fissati dal DM 169/2020 ed è cumulabile, senza riserve, con l’incarico di compliance officer, mentre è soggetta a valutazioni specifiche qualora voglia essere affidata al risk manager.

Resta infine impregiudicato il ricorso all’esternalizzazione della funzione, in linea di massima sulla base dei medesimi presupposti originariamente disciplinati dall’originaria edizione del provvedimento.

Sta di fatto che, venuta meno la necessità di nomina di un referente interno per l’ousourcer (giusta la presenza dell’esponente responsabile per l’antiriciclaggio?), resta da capire chi sia il “responsabile interno” – testualmente – cui si fa riferimento nella individuazione dei contenuti minimi del contratto di fornitura per la frequenza minima dei flussi informativi.

Limite di 100.000 euro per il forfetario senza ragguaglio ad anno

La perdita di uno dei requisiti per l’applicazione del regime forfetario di cui alla L. 190/2014, o il verificarsi di una causa ostativa, comporta la fuoriuscita dal regime agevolato a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in cui l’evento si verifica.

La legge di bilancio 2023, integrando l’art. 1 comma 71 della L. 190/2014, ha tuttavia introdotto un’ipotesi al verificarsi della quale il regime forfetario viene disapplicato relativamente all’anno in corso; in particolare, se i ricavi o compensi percepiti sono superiori a 100.000 euro, il regime cessa di avere applicazione dall’anno stesso in cui tale condizione si verifica.
L’inserimento di una fattispecie di disapplicazione istantanea al superamento del limite di 100.000 euro è in linea con la Direttiva (Ue) 18 febbraio 2020 n. 285, che dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 31 dicembre 2024; secondo quanto previsto dall’art. 288-bis inserito nella direttiva 2006/112/Ce, infatti, l’esenzione IVA collegata al regime forfetario può essere concessa “senza alcun massimale durante l’anno civile in cui avviene il superamento della soglia. Tuttavia, l’applicazione di tale […] opzione non può comportare la concessione di una franchigia al soggetto passivo il cui volume d’affari […] sia superiore a 100 000 EURO”.

La causa di decadenza scatta al superamento della soglia di ricavi o compensi “percepiti”; di conseguenza, ricavi o compensi fatturati nel 2023, ma percepiti nel 2024, non rilevano ai fini della soglia relativa al periodo di imposta 2023.

La disapplicazione del regime in corso d’anno ha effetti diversi a seconda dell’imposta interessata; l’IRPEF dovrà essere infatti calcolata in modo ordinario, prendendo a riferimento l’intero periodo di imposta, mentre l’IVA sarà dovuta solo a partire dalle “operazioni effettuate che comportano il superamento del predetto limite”.

In assenza di chiarimenti in merito, l’IVA dovrebbe essere dovuta a partire dall’operazione (inclusa) che determina il superamento del limite. Ragionando in questi termini, nel caso di ricavi percepiti pari a 90.000 euro a novembre 2023 ed emissione di un’ulteriore fattura per 20.000 euro, quest’ultima dovrebbe già recare l’addebito dell’imposta.
Il quadro si complica, però, se si considera che l’emissione della fattura e l’incasso del ricavo o del compenso possono non coincidere. Riprendendo il caso testé esemplificato, ove la fattura da 20.000 euro non sia incassata nell’anno non si verificherebbe alcuna decadenza immediata dal regime (in quanto i ricavi percepiti sono pari a 90.000 euro) per cui, in costanza di regime, non sarebbe stato necessario l’addebito dell’IVA.

La fuoriuscita dal regime porta con sé ulteriori conseguenze, relative, in particolare:
– agli obblighi di tenuta delle scritture contabili, che scattano sin dall’inizio dell’anno;
– all’applicazione delle ritenute.
In merito all’ultimo punto, l’Agenzia delle Entrate (risposte al Videoforum di Italia Oggi del 23 gennaio 2023) ha chiarito che le ritenute non possono essere applicate retroattivamente, rendendosi applicabili al momento della corresponsione dei compensi; analogamente, il professionista che decade dal regime forfetario in corso d’anno non assume retroattivamente il ruolo di sostituto d’imposta.
In altre parole, le ritenute dovranno essere applicate secondo i criteri generali, vale a dire sui compensi che saranno corrisposti dopo la fuoriuscita dal regime.

L’art. 1 comma 71 della L. 190/2014 si limita a stabilire che il regime forfetario “cessa di avere applicazione dall’anno stesso in cui i ricavi o i compensi percepiti sono superiori a 100.000 euro”, senza disciplinare esplicitamente i casi in cui l’attività sia iniziata o termini nel corso dell’anno; potrebbero quindi sorgere alcuni dubbi in merito alla necessità o meno di ragguagliare ad anno tale limite.
In linea generale, i limiti di ricavi o compensi devono essere ragguagliati ad anno solo nel caso in cui la norma lo preveda espressamente; si pensi, ad esempio:
– all’art. 1 comma 54 lett. a) della L. 190/2014, secondo cui possono applicare il regime forfetario i contribuenti che “hanno conseguito ricavi ovvero hanno percepito compensi, ragguagliati ad anno, non superiori a euro 85.000”;
– all’art. 18 commi 2 e 3 del DL. 36/2022, che estende l’obbligo di emissione di fattura elettronica a partire dal 1° luglio 2022 ai contribuenti forfetari che “nell’anno precedente abbiano conseguito ricavi ovvero percepito compensi, ragguagliati ad anno, superiori a euro 25.000”.

La chiusura dell’attività non ha effetti sul limite

L’assenza di un’esplicita indicazione normativa e di uno specifico chiarimento ufficiale inducono a escludere il ragguaglio ad anno del limite di 100.000 euro. Aderendo a tale impostazione, nessuna decadenza dal regime dovrebbe operare rispetto all’attività chiusa a metà anno con ricavi e compensi percepiti per 90.000 euro. Analogamente dovrebbe ragionarsi nel caso in cui l’attività sia stata iniziata in corso d’anno.

I criteri di radicamento della residenza fiscale non cambiano in smart working

Con la circolare n. 25 di ieri, 18 agosto, l’Agenzia delle Entrate ha analizzato i profili fiscali del lavoro da remoto (c.d. smart working) e la disciplina tributaria dei lavoratori frontalieri alla luce delle novità introdotte dalla L. 13 giugno 2023 n. 83.

La circolare illustra e sintetizza i più recenti sviluppi – a livello nazionale e internazionale – riguardanti l’imposizione di talune categorie di lavoratori particolarmente interessate dall’affermarsi di modalità di svolgimento della prestazione che vedono una separazione tra il luogo di svolgimento dell’attività, il luogo della residenza e il luogo in cui si esplicano gli effetti di tale attività lavorativa.

La prima parte della circolare fornisce, nello specifico, chiarimenti e istruzioni applicative sui profili fiscali del lavoro da remoto (c.d. smart working), focalizzando l’attenzione sui più recenti orientamenti della prassi, anche ai fini dell’applicazione dei regimi agevolativi rivolti alle persone fisiche che trasferiscono la propria residenza fiscale in Italia per svolgere un’attività lavorativa prevalentemente nel territorio italiano, vale a dire il c.d. “regime speciale per lavoratori impatriati” di cui all’art. 16 del DLgs. 14 settembre 2015 n. 147, nonché il “regime speciale per docenti e ricercatori” disciplinato dall’art. 44 del DL 31 maggio 2010 n. 78 convertito.

L’Agenzia delle Entrate conferma che i criteri di radicamento della residenza fiscale delle persone fisiche restano quelli previsti dall’art. 2 del TUIR e non subiscono alcun mutamento per coloro che svolgono un’attività lavorativa in smart working. In altri termini, le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa non incidono sui criteri di determinazione della residenza fiscale, che restano ancorati all’integrazione di almeno una delle condizioni di cui all’art. 2 del TUIR.
Al riguardo, richiamando anche la prassi più recente, la circolare fornisce alcune esemplificazioni (fermo restando quanto previsto da eventuali Convenzioni contro le doppie imposizioni).

La seconda parte della circolare è, invece, dedicata alla speciale disciplina concernente i lavoratori “frontalieri”, alla luce anche dei recenti sviluppi e del nuovo Accordo internazionale siglato con la Svizzera e delle novità introdotte dalla relativa legge di ratifica.

Di interesse è anche la parte relativa all’eliminazione della Svizzera dall’elenco degli Stati fiscalmente privilegiati ai fini IRPEF; con il DM 20 luglio 2023, infatti, la Svizzera è stata espunta dall’elenco del DM 4 maggio 1999.
In merito alla decorrenza dell’eliminazione della Confederazione Elvetica dalla black list, la circolare conferma che, ai fini della presunzione di residenza, gli effetti decorrono dal periodo di imposta 2024.

Restano, tuttavia, fermi gli effetti di ogni attività di accertamento effettuata in conformità alle disposizioni dell’ordinamento nazionale applicabili fino al periodo d’imposta 2023.
In proposito, si riporta l’esempio del cittadino italiano che nel 2023 dovesse cancellarsi dall’anagrafe della popolazione residente e trasferirsi in Svizzera: in questo caso, tale soggetto continuerà a essere considerato – salvo prova contraria – fiscalmente residente in Italia per tale periodo d’imposta ex art. 2 comma 2-bis del TUIR.

Si commenta anche la presunzione di cui all’art. 12 comma 2 del DL 78/2009, secondo cui gli investimenti non indicati nel quadro RW si presumono redditi non dichiarati in Italia quando lo Stato estero interessato risulta inserito nella black list.

In merito, si precisa che le attività di natura finanziaria e gli investimenti che dovessero essere detenuti in Svizzera nel corso del 2023, in violazione degli obblighi del monitoraggio fiscale ex art. 4 del DL 167/90, continuano a presumersi, salvo prova contraria a carico del contribuente, costituite mediante redditi sottratti a tassazione in Italia.
In tal caso, i termini per la notifica dei relativi atti di accertamento e sanzionatori sono peraltro raddoppiati.

Riforma dei redditi agrari con nuove colture “innovative”

La legge delega di riforma fiscale (L. 111/2023), all’art. 5 comma 1 lett. b), reca una serie di previsioni in materia di redditi agrari, che confermano i principi e i criteri direttivi già presenti nel Ddl. originario.

In relazione alle attività di coltivazione ex art. 2135 comma 1 c.c., viene prevista l’introduzione di nuove classi e qualità di coltura nel Catasto dei terreni, per tenere conto dei più evoluti sistemi di coltivazione, disponendo a tal fine:
– il riordino del relativo regime di imposizione su base catastale;
– l’individuazione del limite oltre il quale l’attività eccedente è produttiva di reddito d’impresa.
Detta disposizione si riferisce ai sistemi di coltivazione, quali, ad esempio, la c.d. vertical farm e le colture idroponiche, in grado di ridurre, tra l’altro, il consumo di acqua, di rendere più salubri i prodotti vegetali, di sottrarre determinate produzioni di carattere vegetale agli effetti distruttivi dei cambiamenti climatici. Ciò si realizza “in strutture protette, quali, oltre alle serre, i fabbricati a destinazione agricola, industriale, commerciale e artigianale oramai dismessi e riconvertiti alla produzione in esame” (in tal senso la Relazione illustrativa al Ddl. delega).

La legge delega prevede inoltre l’inclusione tra i redditi conseguiti con attività agricole ex art. 2135 c.c., entro limiti predeterminati, dei redditi relativi ai beni, anche immateriali, derivanti dalle attività di coltivazione e allevamento che concorrono alla tutela dell’ambiente e alla lotta ai cambiamenti climatici. Per tali redditi viene ipotizzato l’eventuale assoggettamento a imposizione semplificata (quali, ad esempio, criteri di determinazione del reddito su base forfetaria, applicando un coefficiente di redditività ai corrispettivi dell’attività).

La Relazione al disegno di legge delega precisa che tale disposizione riguarda anche i redditi “debitamente certificati, derivanti dalla cessione dei crediti di carbonio ottenuti mediante la cattura di CO2”, i quali potranno pertanto essere assoggettati a imposizione semplificata (al riguardo si ricorda che, secondo la risposta a interrogazione parlamentare 31 maggio 2022 n. 5-08179 e la risposta a interpello Agenzia delle Entrate 16 settembre 2020 n. 365, l’assetto normativo vigente esclude che possa rientrare tra le attività agricole connesse la cessione, a titolo oneroso, da parte di un’impresa agricola, delle quote di emissione di anidride carbonica).

È prevista poi l’introduzione di procedimenti, anche digitali, che consentono di aggiornare, entro il 31 dicembre di ogni anno, le qualità e le classi di coltura presenti nel Catasto dei terreni con quelle effettivamente praticate, senza oneri aggiuntivi per i possessori e conduttori dei terreni agricoli e che incideranno, conseguentemente, anche sulla determinazione del reddito dominicale (artt. 29 e 30 del TUIR) e agrario (art. 34 comma 3 del TUIR).

Agevolazioni per pensionati e contribuenti con basso reddito

Un ulteriore criterio di riforma riguarda la revisione, ai fini di semplificazione, del regime fiscale dei terreni agricoli su cui svolgono attività agricole:
– i titolari di redditi di pensione;
– i soggetti con reddito complessivo di modesto ammontare.
La Relazione al Ddl. delega precisa che tale disposizione “è diretta a incentivare i titolari di redditi di pensione o, comunque, a basso reddito, allo svolgimento di attività agricole anche attraverso l’adozione delle medesime disposizioni previste sui terreni agricoli a beneficio dei coltivatori diretti e degli imprenditori agricoli professionali iscritti alla previdenza agricola” (quali, ad esempio, quelle previste dall’art. 1 comma 44 della L. 232/2016).

Aiuti di Stato da restituire per le grandi imprese che delocalizzano entro 10 anni

Per le grandi imprese che hanno beneficiato di aiuti di Stato sugli investimenti, il “periodo di sorveglianza” per il recupero in caso di delocalizzazione è stato esteso da 5 a 10 anni per effetto dell’art. 8 del DL 104/2023.
Tale disposizione interviene, nello specifico, sull’art. 5 del DL 87/2018, che ha previsto alcune disposizioni volte a contrastare la delocalizzazione delle imprese beneficiarie di aiuti di Stato.
Per delocalizzazione, ai fini in esame, si intende il trasferimento dell’attività economica specificamente incentivata o di una sua parte dal sito produttivo incentivato ad altro sito, da parte della medesima impresa beneficiaria dell’aiuto o di altra impresa che sia con essa in rapporto di controllo o collegamento ai sensi dell’art. 2359 c.c.

Tanto premesso, a norma dell’art. 5 comma 1 del DL 87/2018, le imprese italiane ed estere, operanti nel territorio nazionale, che abbiano beneficiato di un aiuto di Stato che prevede l’effettuazione di investimenti produttivi ai fini dell’attribuzione del beneficio, decadono dal beneficio medesimo qualora l’attività economica interessata dallo stesso o una sua parte venga delocalizzata in Stati non appartenenti all’Unione europea (a eccezione degli Stati aderenti allo Spazio economico europeo) entro 5 anni dalla data di conclusione dell’iniziativa agevolata.

Per effetto delle modifiche apportate alla citata disposizione a opera dell’art. 8 del DL 104/2023, è stato ora aggiunto il seguente periodo: “ovvero entro dieci anni se trattasi di grandi imprese, individuate ai sensi della Raccomandazione n. 2003/361/Ce della Commissione, del 6 maggio 2003, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea n. L 124/36 del 20 maggio 2003”.

Pertanto, se ai fini in esame il periodo di sorveglianza” è in linea generale di 5 anni, soltanto per le grandi imprese è stato ora incrementato a 10 anni.
Per grandi imprese, stante il richiamo alla raccomandazione 2003/361, si intendono, per differenza rispetto alle PMI, le imprese che hanno da 250 dipendenti e un fatturato annuo da 50 milioni o un totale di bilancio annuo da 43 milioni di euro.

Quanto alla decorrenza delle nuove disposizioni per le grandi imprese, l’art. 8 del DL 104/2023 non prevede alcuna particolare indicazione (l’art. 5 comma 4 del DL 87/2018 aveva previsto espressamente una disciplina transitoria, in base alla quale “per i benefici già concessi o per i quali sono stati pubblicati i bandi, nonché per gli investimenti agevolati già avviati, anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, resta ferma l’applicazione della disciplina vigente anteriormente alla medesima data”).
Posto che, in linea di massima, il DL 104/2023 è entrato in vigore lo scorso 11 agosto, l’estensione del periodo di sorveglianza a 10 anni potrebbe riguardare anche le grandi imprese per le quali a tale data non fosse ancora scaduto il precedente termine di 5 anni.
Sul punto saranno comunque necessarie specifiche indicazioni.

Oltre alla decadenza, si ricorda, il comma 1 dell’art. 5 prevede una sanzione amministrativa pecuniaria di importo da due a quattro volte quello dell’aiuto fruito.

Fuori dai casi previsti dal comma 1 e fatti salvi i vincoli derivanti dalla normativa europea, le imprese italiane ed estere, operanti nel territorio nazionale, che abbiano beneficiato di un aiuto di Stato che prevede l’effettuazione di investimenti produttivi specificamente localizzati ai fini dell’attribuzione di un beneficio, decadono dal beneficio medesimo qualora l’attività economica interessata dallo stesso o una sua parte venga delocalizzata dal sito incentivato in favore di unità produttiva situata al di fuori dell’ambito territoriale del predetto sito, in ambito nazionale, dell’Unione europea e degli Stati aderenti allo Spazio economico europeo, entro 5 anni dalla data di conclusione dell’iniziativa o del completamento dell’investimento agevolato.
In tal caso non sono state apportate modifiche al periodo di sorveglianza, che resta di 5 anni per tutte le imprese.

I tempi e le modalità per il controllo del rispetto del vincolo di cui ai commi 1 e 2, nonché per la restituzione dei benefici fruiti in caso di accertamento della decadenza, sono definiti da ciascuna amministrazione con propri provvedimenti volti a disciplinare i bandi e i contratti relativi alle misure di aiuto di propria competenza.
L’importo del beneficio da restituire per effetto della decadenza è, comunque, maggiorato di un interesse calcolato secondo il tasso ufficiale di riferimento vigente alla data di erogazione o fruizione dell’aiuto, aumentato di cinque punti percentuali (art. 5 comma 3 del DL 87/2018).

Due regimi agevolati accanto all’IRES «ordinaria»

Nell’ambito della L. 111/2023, legge delega per la riforma fiscale, accanto all’IRES “ordinaria” sono previsti alcuni regimi agevolativi.

L’art. 6 comma 1 lett. a) della L. 111/2023 dispone “la riduzione dell’aliquota dell’IRES nel caso in cui sia impiegata in investimenti, con particolare riferimento a quelli qualificati, o anche in nuove assunzioni ovvero in schemi stabili di partecipazione dei dipendenti agli utili una somma corrispondente, in tutto o in parte, al reddito entro i due periodi d’imposta successivi alla sua produzione”.
Tale riduzione “non si applica al reddito corrispondente agli utili che, nel predetto biennio, sono distribuiti o destinati a finalità estranee all’esercizio dell’attività d’impresa. La distribuzione degli utili stessi si presume avvenuta qualora sia accertata l’esistenza di componenti reddituali positivi non contabilizzati o di componenti negativi inesistenti”. Viene inoltre previsto il “coordinamento di tale disciplina con le altre disposizioni in materia di reddito d’impresa”.

La lettera b) del comma 1 dell’art. 6, in alternativa alle disposizioni di cui al primo e al secondo periodo della citata lettera a), prevede per le imprese che non beneficiano della suddetta riduzione la “possibilità di fruire di eventuali incentivi fiscali riguardanti gli investimenti qualificati, anche attraverso il potenziamento dell’ammortamento, nonché di misure finalizzate all’effettuazione di nuove assunzioni, anche attraverso la possibile maggiorazione della deducibilità dei costi relativi alle medesime”.

Come rilevato nel dossier del 3 agosto 2023 n. 25/1, viene quindi introdotto un doppio regime agevolato rispetto all’IRES ordinaria: accanto all’aliquota ordinaria (attualmente pari al 24%) infatti, in sostituzione del principio di delega originariamente previsto alla lettera a), si prevedono due regimi di vantaggio complementari.

Il primo prevede la riduzione dell’aliquota dell’IRES nel caso in cui sia impiegata in investimenti, con particolare riferimento a quelli qualificati, in nuove assunzioni o in schemi stabili di partecipazione dei dipendenti agli utili, una somma corrispondente, in tutto o in parte, al reddito entro i due periodi d’imposta successivi alla sua produzione.
Pertanto, si prevede che il Governo, nell’esercizio della delega, disponga la riduzione dell’aliquota dell’IRES nel caso di impiego del reddito prodotto (cfr. dossier del 6 luglio 2023):
– in investimenti, con particolare riferimento a quelli “qualificati” (che dovranno essere definiti);
– in nuove assunzioni ovvero in schemi stabili di partecipazione dei dipendenti agli utili.

A differenza di quanto avviene ordinariamente per la fruizione degli incentivi fiscali, come evidenziato nell’originaria Relazione illustrativa, la riduzione dell’aliquota precede l’effettuazione degli investimenti: questi ultimi devono essere operati entro i due periodi d’imposta successivi a quello nel quale è stato prodotto il reddito assoggettato a imposizione con l’aliquota ridotta.

Le imprese che non beneficiano della suddetta riduzione dell’aliquota IRES potrebbero in alternativa beneficiare:
– di un incentivo legato al potenziamento dell’ammortamento in relazione agli investimenti “qualificati” (che potrebbe essere un nuovo super-ammortamento) e
– di misure finalizzate all’effettuazione di nuove assunzioni, che potrebbero assumere la forma della super-deduzione dei relativi costi (con una modalità di funzionamento potenzialmente similare a quella prevista dall’attuale “nuovo Patent box”).

Cambiamenti in vista per i fringe benefit nella riforma fiscale

Nell’ambito della L. 111/2023, legge delega per la riforma fiscale, viene confermata l’intenzione di procedere a una revisione della disciplina dei fringe benefit.

Allo stato attuale, a norma dell’art. 51 comma 1 del TUIR, il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro (c.d. “principio di onnicomprensività”). I beni e servizi forniti al dipendente diversi dalle somme in denaro vengono individuati con il termine fringe benefit dalla prassi dell’Amministrazione finanziaria.
Il comma 3 (terzo periodo, prima parte) dell’art. 51 del TUIR stabilisce, tuttavia, che non concorre a formare il reddito di lavoro dipendente il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati se, complessivamente, di importo non superiore a 258,23 euro nel periodo d’imposta. Il superamento di quest’ultimo importo comporta la tassazione ordinaria dell’intero ammontare e non soltanto della quota parte eccedente il citato limite.

Tale soglia di non imponibilità è stata raddoppiata a 516,46 euro per il 2020 e per il 2021, mentre per il 2022 è stata innalzata dapprima a 600 euro e poi a 3.000 euro, includendo anche le somme erogate o rimborsate ai dipendenti dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale.
L’innalzamento della soglia previsto negli ultimi anni è sempre stato riconosciuto a tutti i lavoratori dipendenti, senza alcuna distinzione.
Per il 2023, invece, l’art. 40 del DL 48/2023 ha incrementato il suddetto limite a 3.000 euro per i soli lavoratori dipendenti con figli a carico, includendo tra i fringe benefit concessi ai lavoratori anche le utenze domestiche, generando quindi un doppio binario per la determinazione del reddito di lavoro dipendente in relazione ai fringe benefit 2023. Al riguardo, la circolare n. 23/2023 ha, tra l’altro, chiarito che per fruire della soglia maggiorata occorre una specifica dichiarazione del lavoratore (si veda “Senza autodichiarazione del dipendente con figli niente fringe benefit a 3.000 euro” del 16 agosto).

L’art. 5 comma 1 lettera e) della L. 111/2023, confermando quanto previsto nel testo originario del Ddl., prevede ora “per i redditi di lavoro dipendente e assimilati, la revisione e la semplificazione delle disposizioni riguardanti le somme e i valori esclusi dalla formazione del reddito, con particolare riguardo ai limiti di non concorrenza al reddito previsti per l’assegnazione dei compensi in natura, salvaguardando le finalità della mobilità sostenibile, dell’attuazione della previdenza complementare, dell’incremento dell’efficienza energetica, dell’assistenza sanitaria, della solidarietà sociale e della contribuzione agli enti bilaterali”.

Secondo la Relazione illustrativa, tale revisione è volta a realizzare una semplificazione delle disposizioni concernenti le modalità di determinazione del reddito, oltre che una specifica razionalizzazione delle somme e dei valori che concorrono, in tutto o in parte, a formare l’imponibile.
È previsto che, in particolare, si proceda anche a una rivisitazione dei limiti di non concorrenza al reddito dei fringe benefit, cioè di quei beni e servizi che il datore di lavoro mette a disposizione dei propri dipendenti con la finalità di incentivare e valorizzare il lavoratore, oltre che di creare una fidelizzazione del lavoratore medesimo.

Focus su specifiche finalità

In tale ambito, si prevede che siano in particolar modo salvaguardate alcune specifiche finalità:
– mobilità sostenibile;
– previdenza complementare;
– efficientamento energetico;
– solidarietà sociale;
– contribuzione agli enti bilaterali.

In relazione ai redditi di lavoro dipendente, il Viceministro dell’Economia e delle finanze, Maurizio Leo, nel corso del suo intervento alla Camera del 4 agosto 2023 sul disegno di legge delega, ha affermato che si è pensato di rendere analiticamente deducibili certi costi e certe spese, come quelle per la mobilità e per la formazione, “cercando di elevare il tetto dei fringe benefit, i famosi 3.000 euro”, precisando inoltre che “già l’abbiamo fatto nella legge di bilancio e continueremo a farlo nei successivi provvedimenti.”
Il Viceministro ha inoltre affermato che “al tempo stesso, abbiamo ritenuto meritevole di attenzione una detassazione degli straordinari, soprattutto per la fasce più deboli”.

Efficacia delle dimissioni dei neo-genitori condizionata alla convalida

Per legge, la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro o la richiesta di dimissioni presentate dalla lavoratrice durante il periodo di gravidanza nonché dai lavoratori neo-genitori durante i primi tre anni di vita del bambino (o nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento o, in caso di adozione internazionale, nei primi tre anni decorrenti dalle comunicazioni di cui all’art. 54 comma 9 del DLgs. 151/2001) devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali competente per territorio (art. 55 comma 4 del DLgs. 151/2001).

Attualmente, la convalida delle dimissioni dei lavoratori neo-genitori presuppone il colloquio diretto della lavoratrice o del lavoratore interessato con il personale dell’Ispettorato territoriale del lavoro (ITL), il quale rappresenta un efficace strumento per valutare e accertare la genuinità della volontà di risolvere il rapporto di lavoro.
È comunque anche ammessa, su richiesta della lavoratrice o del lavoratore interessato, l’effettuazione del colloquio da remoto mediante l’utilizzo della piattaforma Microsoft teams (cfr. nota INL n. 2897/2022).

A tal fine sul sito istituzionale dell’Ispettorato del Lavoro risulta scaricabile il relativo modulo di richiesta nella sezione “Modulistica”, da trasmettere all’indirizzo e-mail dell’ITL competente – individuato in base alla Provincia corrispondente al luogo di lavoro o di residenza del lavoratore o della lavoratrice –, con indicazione della casella di posta elettronica del lavoratore padre o della lavoratrice madre alla quale dovrà essere inviato il link per il collegamento alla piattaforma Microsoft teams e con allegazione della documentazione richiesta (quindi, fotocopia non autenticata del documento di identità e lettera di dimissioni/risoluzione consensuale debitamente datata e firmata).

Si evidenzia che la convalida, in tali ipotesi, è fondamentale, in quanto le dimissioni in questione devono essere convalidate a pena di inefficacia.
L’ultima parte del comma 4 dell’art. 55 del DLgs. 151/2001 dispone infatti espressamente che l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro sia sospensivamente condizionata alla convalida da parte dell’Ispettorato del lavoro.

Sul punto la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5598/2023, è intervenuta chiarendo che l’inefficacia delle dimissioni non convalidate non è limitata al solo periodo “protetto” dalla norma – vale a dire la gravidanza e i primi tre anni di vita del bambino, seppur la pronuncia si sia riferita alla precedente versione della disposizione in argomento, che faceva riferimento al primo anno di vita del minore –, per cui una volta trascorso detto periodo, le dimissioni non producono in ogni caso l’estinzione del rapporto di lavoro.

In mancanza della convalida da parte dei servizi ispettivi, le dimissioni non producono quindi effetti, ciò in quanto “la cessazione del periodo protetto costituisce un fattore neutro”, inidoneo, in quanto tale, a incidere “sulla modalità di formazione della volontà dismissiva espressa dal dipendente”.

Nel caso di specie, in primo grado, il giudice aveva condannato il datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive e del TFR maturati dalla data nella quale la lavoratrice, assente per maternità, aveva rassegnato le dimissioni – le quali non erano state convalidate – alla data in cui terminava il periodo protetto, mentre la Corte di Appello, con una statuizione poi confermata dalla Cassazione, ha dichiarato l’inefficacia delle dimissioni rassegnate per non essere mai intervenuto il prescritto provvedimento di convalida da parte dei servizi ispettivi, con diritto della dipendente al pagamento degli importi corrispondenti alle retribuzioni mensili percepite fino alla data di deposito del ricorso di primo grado, detratto l’aliunde perceptum.

Sospeso anche il termine triennale per ultimare la prima casa

Secondo la Corte di Giustizia tributaria I di Lecce (sentenza 11 luglio 2023 n. 1174/2/23), la sospensione dei termini di prima casa, che opera dal 23 febbraio 2020 al 31 marzo 2022 (per effetto dell’art. 24 del DL 23/2020) e dal 1° aprile 2022 al 30 ottobre 2023 (grazie all’art. 3 comma 10-quinquies del DL 198/2022), sospende anche il termine di 3 anni per la costruzione dell’immobile, quando si compra “in corso di costruzione”.

In senso opposto si era espressamente pronunciata l’Agenzia delle Entrate, nella riposta ad interpello 12 gennaio 2021 n. 39, la quale aveva escluso che la sospensione potesse operare anche per il termine triennale da applicare in caso di acquisto in costruzione, in quanto tale termine non è contemplato dalla Nota II-bis all’art. 1 della Tariffa, parte I, allegata al DPR 131/86.

In effetti, il termine triennale è stato introdotto dalla prassi e dalla giurisprudenza per sopperire all’assenza di un termine normativo per l’ultimazione della costruzione

Si ricorda, infatti, che l’agevolazione prima casa spetta anche per l’acquisto degli immobili in corso di costruzione, sebbene la norma in materia di imposta di registro (Nota II-bis all’art. 1 della Tariffa, parte I, allegata al DPR 131/86) non lo preveda espressamente (mentre la norma IVA, collocata al n. 21 della Tabella A, Parte II, allegata al DPR 633/72, fa espressa menzione di tale possibilità).

Sia la giurisprudenza (tra le tante, si vedano Cass. 12 dicembre 2018 n. 32121, 10 settembre 2004 n. 18300 e 29 aprile 2009 n. 10011) che l’Amministrazione finanziaria (cfr. circ. Agenzia delle Entrate 21 febbraio 2014 n. 2, § 1.3), infatti, consentono l’applicazione dell’agevolazione prima casa anche per acquisti da ultimare o in costruzione.
Tanto la prassi che la giurisprudenza, però, dopo aver ammesso tale possibilità, hanno dovuto stabilire un termine entro il quale il contribuente deve ultimare l’immobile, in modo da consentire la verifica della sussistenza delle condizioni agevolative. 

Secondo l’Agenzia delle Entrate (circ. n. 38/2005, § 5.1), appurato che la norma agevolativa non prevede un termine per l’ultimazione dei lavori di costruzione dell’immobile, resta l’esigenza di fissare un termine per la verifica della sussistenza dei requisiti che danno diritto all’agevolazione, termine che non può essere differito sine die.

In proposito, la giurisprudenza (Cass. nn. 28577/2020 e 5180/2022) ha evidenziato che, in assenza di un termine normativamente fissato per realizzare una condizione richiesta per un beneficio, tale termine non può superare quello attribuito all’Amministrazione finanziaria per esercitare i propri controlli sulla spettanza del beneficio medesimo (fissato, nell’imposta di registro, dall’art. 76 del DPR 131/86).
Infatti, in base all’art. 2964 e seguenti c.c., il termine di decadenza stabilito dalla legge non può che farsi decorrere “… a partire dal momento in cui sussista il potere di compiere o tenere l’atto od il comportamento accertativo”.

Pertanto, secondo la ricostruzione operata dalla C.G.T. di Lecce, “in caso di acquisto agevolato di un’abitazione in costruzione, il contribuente deve ultimare la costruzione del fabbricato, ai fini del mantenimento dell’agevolazione, entro 3 anni dalla registrazione dell’atto, scaduto questo termine, decorre un ulteriore triennio entro il quale l’ufficio può contestare la spettanza dell’agevolazione «prima casa»”.

Alla luce di questa consolidato orientamento di prassi e di giurisprudenza, quindi, la Corte ritiene che anche il termine di tre anni per l’ultimazione dell’edificio rientri tra i termini relativi alle agevolazioni prima casa che risultano sospesi per effetto dell’art. 24 del DL 23/2020 e dell’art. 3 comma 10-quinquies del DL 198/2022.
Infatti, seppur sia vero che la norma sulla sospensione richiama solo i termini “previsti dalla Nota II-bis”, non è possibile escludere dalla sospensione il termine di tre anni che è stato “estrapolato” interpretativamente dalla giurisprudenza, proprio in ragione della lacuna normativa.

Quindi – rileva la Corte leccese – non sarebbe corretto interpretare letteralmente il rinvio normativo operato dalla norma sulla sospensione: il rinvio alla Nota II-bis contenuto nell’art. 24 del DL 23/2020 e nell’art. 3 comma 10-quinquies del DL 198/2022 non può, infatti, che riguardare la “complessiva interpretazione che nel passato i Giudici hanno dato della Nota II-bis”.

Sarebbe paradossale che, proprio nel momento in cui la nota II-bis viene richiamata da un’altra norma, “perdesse” tutti gli “attributi” interpretativi che la giurisprudenza gli ha riconosciuto nel tempo.
D’altronde, anche se si ragiona sulla ratio della sospensione dei termini, si comprende subito come essa non possa non operare anche per il termine triennale relativo all’ultimazione della prima casa acquistata in corso di costruzione.